La mia su Santiago, Italia

Dalla visione di “Santiago, Italia” si esce felici. Felici di aver assistito a un documentario rilevante sia come fatto morale che come fatto artistico. Come fatto morale è rilevante perché il filo dei valori di libertà, democrazia e solidarietà attraversa gli ottanta minuti del film indelebilmente ma senza sbavature: si parla di sentimenti evitando il sentimentalismo, e di passioni politiche evitando il patetismo. Come fatto artistico è rilevante perché la narrazione rifulge per asciuttezza, per nitore stilistico, per capacità di incastonare in ogni intervista uno o due dettagli memorabili. Si capisce al volo che il lavoro di sottrazione effettuato in sede di montaggio ha tolto tutto quello che c’era da togliere conferendo una luce non comune a ciò che è rimasto. La grandezza dell’opera, cioè la sua compiutezza e la sua geometricità, sta in una decina di momenti che presi tutti insieme creano un senso acuto di forza e di verità: la bambina lanciata oltre il muro dell’ambasciata italiana; l’impegno umanitario del cardinale Raúl Silva Henríquez nel commosso ricordo di un ex militante ateo; l’accenno al dibattito tra intransigenti e realisti all’interno del partito di Allende; le ipotesi contrapposte sulla morte del Presidente; le immagini con Neruda e quelle con Volonté; il rifugiato che spiega il suo percorso di inserimento socio-lavorativo in Italia cominciato in una porcilaia del comune rosso di Soliera; la persistente e ripugnante impudenza degli aguzzini; la ex perseguitata capace nel giro di un minuto di ricostruire non solo le ragioni della fermezza negli interrogatori ma anche come durante le torture il tragico potesse convivere col grottesco. Non era facile trovare una via originale per raccontare i risvolti del golpe cileno del 1973 e della conseguente instaurazione di una delle più criminali e sanguinarie dittature dell’ultimo mezzo secolo. Occorre riconoscere che Nanni Moretti c’è riuscito appieno.

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