Tra pochi giorni, il 5 giugno, ricorrerà il 38esimo anniversario della scomparsa di Giorgio Amendola.
Torno spesso a leggere i suoi scritti e a meditare sulla sua opera.
Amendola fu un politico e un intellettuale audace e innovatore, per tanti versi scomodo.
Nell’ottobre del 1979, in una lettera a Giovanni Spadolini, scrisse parole attuali oggi più che mai: “In questo periodo di follie e di sconnessioni collettive, l’essenziale è contribuire a riportare l’Italia sulle vie della ragione”.
Commemorandolo sulla “Stampa”, Spadolini osservò: “La sua era sempre stata, non a caso, l’Italia della ragione”.
Nell’ultima parte della sua vita, a cominciare dalla seconda metà degli anni ’70, Amendola fu non solo, in sintonia con Ugo La Malfa, l’uomo della lotta aperta e coraggiosa ai corporativismi e agli sperperi nella spesa pubblica e nelle partecipazioni statali.
Fu anche, e oggi dico soprattutto, il maggior artefice della svolta europeista del suo partito.
Nel 1976 volle Altiero Spinelli candidato come indipendente nelle liste del Pci per la Camera.
Nel 1979 sia Spinelli che Amendola divennero parlamentari europei.
Amendola, nel luglio di quell’anno, fu il candidato dei comunisti per la presidenza del Parlamento Europeo, carica alla quale venne eletta Simone Veil.
La quale, fatto grandemente significativo, prese la parola ai suoi funerali, che si svolsero nel Piazzale del Verano il 7 giugno 1980.
Dopo di lei, intervennero Berlinguer e Pajetta.
La moglie di Amendola, Germaine Lecocq, mancò il giorno dopo la morte del marito, stroncata dal dolore.
Pajetta le dette così, in tono commosso, l’estremo commiato: “Il saluto per te non riesce ad essere doloroso: siete stati sempre insieme, lo sarete ancora”.