CONCLUSIONI NEL CONVEGNO SUL CENTENARIO DEI FATTI DI EMPOLI DEL 1° MARZO 1921, 17 SETTEMBRE 2021
La decisione di organizzare questo convegno, voluto dall’Amministrazione Comunale di Empoli su impulso della Società Storica Empolese, è stata quanto mai opportuna. L’iniziativa ha dimostrato di meritare l’alto patronato che il Presidente della Repubblica ha concesso, e per il riconoscimento del quale sono stato onorato di poter dare un contributo.
Ho molto apprezzato il rigore scientifico con cui è stato concepito. Ed ho molto apprezzato che si sia nutrito di relazioni di ampio respiro e ad ampio raggio. Di questo ringrazio in maniera sentita il professor Roberto Bianchi e chi ha lavorato al suo fianco nella preparazione delle due giornate di studi.
Dal convegno esce un contributo storiografico di prim’ordine, che ha illuminato a dovere il contesto in cui i Fatti di Empoli del 1° marzo 1921 si collocarono, e che ha permesso di comprendere meglio il loro significato e la loro rilevanza.
A cento anni di distanza dagli avvenimenti, abbiamo bisogno di un’onesta storia politica, dismettendo, di conseguenza, ogni uso politico della storia.
Si tratta di avvenimenti che fin dal loro manifestarsi, e per molti decenni in seguito, hanno suscitato passioni accese e polemiche aspre. Di certo, rispetto a questa vicenda serviva un salto di qualità sul piano storiografico. Questo seminario, anche per gli sviluppi che i suoi promotori si sono impegnati a dargli, rappresenta il salto di qualità che era necessario.
Sottolineo due osservazioni particolarmente appropriate che ci sono state proposte dal Presidente del Consiglio Comunale di Empoli Alessio Mantellassi nel suo intervento di venerdì scorso.
Prima osservazione giusta: gli accadimenti del 1° marzo 1921 costituiscono “un fatto estremamente duro e complesso della nostra storia”. Duro e complesso sono due aggettivi importanti. Su questo tornerò più avanti.
Seconda osservazione giusta di Mantellassi: per inquadrare adeguatamente quegli accadimenti, e capire la Empoli del 1921, è necessario soffermarci su cosa erano l’Italia del 1921 e la Toscana del 1921. Quegli eventi non furono un fatto isolato. Furono figli di una fase storica, sociale e politica ben determinata.
Delle considerazioni del professor Mauro Guerrini voglio sottolineare la condanna delle ricostruzioni propagandistiche, l’appello a far spazio a una ricerca storica “libera e documentata”, e a non utilizzare le ricostruzioni storiche di un episodio di cento anni come “combustibili” del dibattito politico di oggi. Ho trovato calzante, in Guerrini, anche l’uso del sostantivo “tragedia” per descrivere nell’insieme l’accaduto. Anche sul termine “tragedia”, peraltro già utilizzato dalla sindaca Luciana Cappelli nella sua introduzione al lavoro del 2007 coordinato da PaoloPezzino, Empoli Antifascista, tornerò più avanti.
L’introduzione del professor Roberto Bianchi ha tra le altre cose avuto il pregio di stigmatizzare le rievocazioni di taglio localistico e cronachistico. Il cronachismo e il localismo sono una degenerazione della ricerca storica. Il cronachismo è la registrazione anche meticolosa di una serie di fatti senza alcun senso di prospettiva storica. Il localismo è fuorviante poiché impedisce di capire i grandi fenomeni della vita politica in quanto non mette a fuoco il legame sussistente tra questioni particolari e questioni generali, tra i singoli dettagli e la cornice complessiva che li racchiude e dà ad essi un senso.
Mi consento una piccola digressione personale. I miei contatti con i fatti del 1 Marzo 1921 sono avvenuti in tre momenti diversi della mia vita, ognuno dei quali ha costituito una spinta a saperne di più, a studiare, a capire meglio. Il primo contatto lo ebbi nell’adolescenza, ascoltando dalla loro viva voce i racconti di testimoni diretti o di parenti stretti di testimoni diretti. Il secondo lo ebbi all’inizio dell’età adulta, quando per ragioni del tutto fortuite e quasi bizzarre, mi ritrovai a prender parte, interpretandovi uno dei marinai aggrediti, alle riprese del film “Empoli 1921” che ebbero luogo in città nell’estate del 1992 (il film arrivò al Festival di Venezia nel 1994 e vinse il Festival di Annecy nel 1995). Il terzo contatto risale agli anni dell’università, quando il desiderio di documentarsi assunse una forma strutturata dando origine a una ricerca sui conflitti primo dopoguerra in Italia che si è giovata di tante letture fondamentali, da Alatri a Tasca, da Salvemini a Salvadori, da Emilio Gentile a Enzo Traverso, da Vivarelli a Fabbri fino ovviamente a Roberto Bianchi. Fine della digressione personale. Che mi è servita solo per dire che dopo questo percorso a tappe sento finalmente di essere riuscito a mettere tra me e gli eventi del 1921 la giusta distanza, cosa necessaria per fare buona storia su avvenimenti rispetto ai quali si ha un coinvolgimento anche passionale e sentimentale.
Come dicevo, a questo convegno vanno riconosciuti grossi meriti.
Il principale dei quali è di aver illuminato efficacemente l’esplosività e la straordinarietà del panorama sociale e politico dell’Italia dell’immediato primo dopoguerra.
Uno scenario nel quale si mescolano i lutti, gli sconvolgimenti e gli sbandamenti causati dalla guerra mondiale; un Paese spaccato, frantumato; rivendicazioni popolari possenti che restano in gran parte insoddisfatte e non di rado sono soffocate nel sangue; la cocente frustrazione di diffuse aspettative di progresso sociale; inflazione e disoccupazione galoppanti; la dissoluzione dell’autorevolezza e della funzionalità dello Stato e delle sue istituzioni, che procede di pari passo con la crescita di pulsioni antiparlamentari e di un corrosivo sentimento di sfiducia nel metodo democratico albergante sia nell’estrema destra che nell’estrema sinistra dello spettro politico; un dilagare abnorme e incontrollato della violenza (in 3 anni, dal 1918 al 1921, aumenta di tre volte, da 6 a 17, il numero di omicidi per 100 mila abitanti, dati forniti da Giulia Albanese); un concomitante abbassamento, anch’esso frutto avvelenato delle carneficine di guerra, della percezione sociale del valore della vita e della morte umana; uno stato di continua e tumultuosa fibrillazione sociale, di disordine endemico, di tensione permanente, nel quale l’obiettivo della rivoluzione e della dittatura del proletariato, che nessuno, di fatto, concretamente preparò e organizzò, veniva nondimeno quotidianamente sbandierato in comizi, assemblee, scioperi, cortei e titoli di giornale. I fatti psicologici in alcuni casi contano tanto quanto i fatti materiali, o persino di più, e quindi, sebbene gli storici abbiano dimostrato che l’obiettivo della rivoluzione allora non fu mai realmente a portata di mano, resta il fatto che milioni di persone lo ritennero tale, e sappiamo bene che una convinzione di massa può costituire un rilevante fatto politico anche quando è all’atto pratico infondata. Perciò questo clima di diffusa attesa rivoluzionaria, mentre divenne per una parte della popolazione strumento per esprimere un’insoddisfazione esistenziale profonda e un mito galvanizzante suscettibile di alimentare una prolungata mobilitazione collettiva, per un’altra parte della società, nient’affatto piccola, nella quale si unirono ai ceti possidenti segmenti rilevanti delle classi medie e della piccola borghesia, diventò invece motivo di allarme crescente, e alla fine parossistico, radicando in quelle porzioni del corpo sociale uno stato d’animo che giustamente è stato definito da molti storici di psicosi antirivoluzionaria. Uno stato d’animo che sarà abilmente ingigantito, cavalcato e sfruttato dalle forze retrive che a partire dall’autunno del 1920 si attrezzarono in maniera sempre più sistematica per troncare il disordine e il ribollimento popolare, e la baldanza e l’irruenza delle organizzazioni del proletariato, con metodi autoritari e illiberali, apertamente dittatoriali.
È in questo quadro convulso e esasperato che nasce e diventa travolgente la cospicua novità storica che va sotto il nome di squadrismo. Il compito di mettere in riga e castigare i cosiddetti sovversivi tramite quella che a ragione fu descritta come una controrivoluzione preventiva viene assunto da formazioni private irregolari, strutturate in maniera paramilitare, abbondantemente armate, che irrompono nello scontro politico immettendovi la logica dell’omicidio mirato, della spedizione punitiva, la tattica terroristica del colpirne uno – col manganello o con l’olio di ricino, o con una revolverata sotto casa – per educarne cento.
Le cronache danno conto di un fenomeno mai avvenuto prima in Italia, almeno in queste dimensioni.
Angelo Tasca racconterà da par suo le costanti dell’azione squadristica. Cito:
“assalto alla Camera del lavoro, al sindacato, alla Casa del popolo, aggressione fisica ai sovversivi, ricerca dei leader, del sindaco, dei consiglieri, del segretario della lega contadina, del presidente della cooperativa e distruzione delle loro case, aggressione ai loro familiari”.
Matteotti nel gennaio 1921 parlerà a lungo alla Camera di queste spedizioni, per denunciare l’illegalismo che ha preso ad abbattersi in modo funesto su operai e contadini.
Quella che scoppia è certamente una guerra civile. Ma per capirne bene l’essenza è necessario adoperare anche altri termini qualificanti.
È anche una guerra asimmetrica.
Asimmetrica perché dall’autunno 1920 la sproporzione di forze tra le due parti è gigantesca. È chiaro, salvo pochissime eccezioni, chi sono in questo conflitto i forti e chi sono i deboli, chi sono gli aggressori e chi gli aggrediti.
È una guerra asimmetrica anche perché lo Stato non si pone su posizioni di neutralità. Lo Stato di fatto si schiera da una parte, e lo fa ora con azioni (agevolando e persino coadiuvando i raid) ora con omissioni (lasciando fare, o facendo finta di non vedere quando è il caso di far finta di non aver visto).
I Fatti di Empoli del 1 marzo 1921 furono un episodio di questa guerra asimmetrica e possono essere correttamente intesi solo su questo sfondo.
Mi sono posto spesso, riflettendo su di essi nel corso di molti anni, il problema di come definire quei fatti. Le parole sono pietre. Quali usare?
Credo si possa dire che quella che ebbe luogo a Empoli il 1° marzo di cento anni fa fu una vicenda in pari tempo tragica e fondativa.
Entrambi questi aggettivi esigono una delucidazione.
Perché fu tragica? Fu tragica perché, indipendentemente dai dettagli del suo svolgimento, sui quali è bene continuare a cercare documenti, essa sfociò nella morte di nove innocenti, che non erano squadristi, che non erano giunti a Empoli per uccidere, per picchiare qualcuno o per distruggere qualcosa. Fu tragica perché indubbiamente fu segnata anche da gravi eccessi. Fu tragica perché tragica era per il proletariato empolese la posta in gioco. Per capire quanto ho appena detto bisogna fare lo sforzo di calarsi nella mente di quel pezzo di popolo: panico e sbigottimento, la paura di perdere in pochi giorni conquiste costate decenni di lotte: le sedi sindacali, politiche e cooperative; la guida dell’amministrazione comunale; la libertà politica. Esattamente come era avvenuto in parecchie altre città a direzione socialista nelle settimane precedenti, esattamente come era avvenuto in diversi quartieri fiorentini e a Scandicci poche ore prima, esattamente come sarebbe avvenuto a Empoli e in tutti i comuni vicini nei giorni successivi al 1° marzo (e come sarebbe certamente avvenuto, magari solo un po’ più tardi, se anche i fatti del 1° Marzo 1921 non si fossero verificati). Infine fu una vicenda tragica perché col senno di poi noi possiamo dire con chiarezza che un’azione insurrezionale localizzata in quelle circostanze era destinata in partenza a non conseguire il risultato politico sperato. Per quanto si possa avvertire, nel sottofondo di quei fatti, la voce di chi sta subendo un’oppressione e a un certo punto dice “basta, non voglio subire più, bisogna contrattaccare”, resta il fatto che la via della ribellione armata era, in quelle particolari condizioni, una via senza sbocco, un vicolo cieco. La grande maggioranza degli storici del periodo ci ha spiegato nitidamente e a mio avviso incontrovertibilmente che era appunto una tragica illusione l’idea di poter fermare il fascismo operando sul terreno della lotta armata e dello scontro fisico senza avere alle spalle un retroterra di larga alleanza politica tra tutte le forze che per una ragione o per l’altra, in modi diversi e con diversa intensità e determinazione, lo avversavano. Certo, tra quelle forze esistevano divergenze profonde di collocazione sociale e ideologica. Ma non erano minori, e su questo sono stati fondamentali i contributi di Francesco Barbagallo e Massimo Salvadori, le divergenze ideologiche sussistenti nel 1943-45 tra le componenti dell’antifascismo italiano. La differenza di fondo fu che nel 1943 quelle forze ebbero la capacità di accantonare momentaneamente ciò che le divideva per combattere insieme il fascismo, e ebbero questa capacità in primo luogo perché avevano vissuto dolorosamente sulla propria pelle lunghi anni di dittatura. Nel 1921-22 questa capacità non vi fu, e questa fu una colpa che accomunò i dirigenti di tutti i partiti. I dissidi, le rivalità, gli egoismi di partito e i veti incrociati ebbero la meglio, anche perché quasi nessuno dei protagonisti in campo seppe vedere che l’ondata di violenza squadrista era il prologo non di pochi mesi o di pochi anni di involuzione autoritaria, bensì di lunghi anni, ben venti, di dittatura e di totalitarismo.
Come ho detto, fu, oltre che una vicenda tragica, una vicenda fondativa. Perché fondativa? Perché la furibonda repressione seguita ai fatti del 1° marzo – per inciso, come mi ha detto una volta con felice sintesi Paolo Santini, “il dopo spiega in parte anche il durante e il prima” – la furibonda repressione, dicevo, portata avanti in parallelo dalla forza pubblica e poi dalle squadre fasciste immediatamente dopo il 1° marzo – con centinaia di arresti, con la cacciata dai municipi degli amministratori socialisti eletti nel 1920, con una lunga sequenza di persecuzioni e vessazioni (500 arresti, in una città popolata allora da poco più di 20 mila abitanti, erano una cosa impressionante) – oggettivamente contribuì a rinsaldare le già forti radici antifasciste di Empoli, la già forte identità antifascista della città, e a dare all’antifascismo clandestino empolese, e poi a quello partigiano, una resilienza e una profondità senza eguali perlomeno in Toscana. Non a caso, come è stato spesso ricordato, Empoli fu definita “capitale morale dell’antifascismo toscano”. Non a caso nel 2017 è stata insignita dal Presidente della Repubblica della medaglia d’oro al merito civile per l’apporto dato alla lotta antifascista. Ecco perché ho detto che Mantellassi ha fatto bene a parlare di vicenda “dura e complessa”. Della sua complessità fa parte anche l’impatto fondativo che ebbero i suoi postumi repressivi. Impatto fondativo che è in qualche modo l’altra faccia della tragedia.
Grazie a tutti per l’attenzione.
DARIO PARRINI
PDF Conclusioni convegno Empoli 1921