INTERVENTO PRONUNCIATO IL 12 SETTEMBRE 2021. BASOVIZZA-TRIESTE, Monumento ai caduti antifascisti sloveni
“Prendo la parola in questo luogo con profonda emozione.
L’invito che mi è stato rivolto dal Comitato per le Onoranze degli Eroi di Basovizza presso la Biblioteca Nazionale Slovena di Trieste costituisce per me un grande onore.
Per questo desidero porgere ai suoi rappresentanti e alla collega senatrice Tatjana Rojc un ringraziamento sincero.
A tutti i presenti – cittadini, associazioni, la ministra Helena Jaklitsch e il signor Console Generale, autorità civili e militari, rivolgo un saluto ossequioso e caloroso.
Voglio dirvi che mi riempie l’animo la consapevolezza che sto parlando in una terra carica e densa di storia come poche altre.
Una terra bellissima e straordinariamente complessa eccezionalmente segnata dai tempestosi drammi del Novecento, una terra e una città da cui è passato il destino dell’Europa.
Ciò esige misura e il rifiuto di ogni sterile semplicismo, la ripulsa di qualsiasi faciloneria e superficialità.
Oggi, a 91 anni di distanza dai fatti, ricordiamo l’uccisione di quattro uomini fucilati da un plotone di esecuzione sulla base di una preconfezionata sentenza di condanna a morte emessa dal Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato. Bidovec, Milos, Marusic e Valencic erano quattro antifascisti.
Avevano deciso di combattere contro i soprusi di un governo oppressivo che a partire dal 1923 aveva preso a colpire la loro comunità con sempre più gravi vessazioni. Nel farlo esercitarono un’intangibile prerogativa dei popoli: il diritto di resistenza, vale a dire il diritto di opporsi frontalmente a un potere tirannico, e perciò ingiusto e illegittimo.
È necessario comprendere bene l’oggetto contro cui si diresse tale ribellione.
Il fascismo non si manifestò ovunque nella stessa maniera. Ci fu il fascismo interno e ci fu il fascismo di confine, di frontiera. Se il fascismo interno fu totalitario e liberticida, il fascismo di confine fu, oltre che totalitario e liberticida, brutalmente etnicista. Nel resto del territorio italiano il fascismo tolse a donne e uomini la libertà. Qui e in altre zone di confine tentò di far sparire, insieme alla libertà, una lingua, e quindi l’identità, la storia, la cultura di un popolo. La sua anima.
Recita un proverbio ceco: “Imparate una nuova lingua e avrete una nuova anima”.
Ha detto, con un aforisma geniale, un grande scrittore europeo del ventesimo secolo: “Non si vive in un Paese, si vive in una lingua”.
Notò, con parole enormemente pregnanti e acute, il poeta Yeats: “Una lingua rappresenta la memoria collettiva naturale di una popolazione; se questa perde il contatto con il suo mezzo di espressione più antico, diviene del tutto incapace di riconoscersi”.
Il fascismo di confine praticò un’efferata politica di snazionalizzazione. La storia del fascismo è caratterizzata da una lunga sequenza di pagine buie e funeste. Ebbene, l’italianizzazione forzata nelle regioni di confine fu una delle più oscure e funeste. E anche, elemento non secondario, una delle più lunghe: dire “italianizzazione forzata” significa riferirsi ad un’opera spietata di vera e propria colonizzazione culturale, a pratiche persecutorie durate nella Venezia Giulia per un ventennio e culminate negli orrori perpetrati durante la seconda guerra mondiale.
Del resto l’antislavismo violento e estremistico, esacerbato dalle vicende che precedettero e che connotarono la Prima Guerra Mondiale, fu fin dal suo sorgere uno dei tratti essenziali del fascismo.
Ci sono tre fatti vigorosamente emblematici, che non si possono dimenticare. Sono assai eloquenti, mi hanno sempre colpito e vorrei citarli.
Primo fatto non dimenticabile. Il battesimo dello squadrismo organizzato ebbe luogo a Trieste con la distruzione del Narodni dom nel centro cittadino. Il raid triestino del luglio 1920 costituì, in negativo, una svolta ante litteram del fascismo, prim’ancora che la violenza di partito diventasse violenza di regime.
Secondo fatto non dimenticabile. Appartenevano alla comunità croata e slovena ben la metà delle vittime delle 56 esecuzioni attuate in seguito a condanne a morte pronunciate dal Tribunale Speciale fascista. È un fatto che mi è sempre parso incredibilmente significativo.
Terzo fatto non dimenticabile. Mussolini scelse Trieste, nel settembre 1938, per annunciare l’adozione delle leggi razziali. Non fu, nemmeno quella, una scelta casuale.
Se non si tengono a mente questi fatti, e tutto il gorgo di eventi ad essi collegati che hanno rovinosamente investito queste terre, non si può capire fino in fondo, ad esempio, come mai nella Costituzione della Repubblica italiana, che è nata dalla Resistenza al fascismo, c’è l’articolo 6 sulla tutela delle minoranze linguistiche oltre all’articolo 3 che sacralizza il pluralismo e proibisce le discriminazioni.
Non si può capire come mai il principio di tutela delle minoranze linguistiche è inserito non in un posto marginale, ma tra i Principi Fondamentali della nostra Carta.
Non si può capire come mai la tutela delle minoranze linguistiche trova nell’ordinamento italiano una formulazione tra le più dirette e incisive nel panorama delle Costituzioni dell’intera Europa democratica.
Dopo la seconda guerra mondiale si impose gradualmente l’esigenza di cambiare strada, di costruire in Europa un’altra storia.
Non è stato un percorso lineare. È stato anzi un percorso faticoso e talvolta gravido di contraddizioni. Ma siamo andati avanti.
A Basovizza un anno fa i presidenti Sergio Mattarella e Borut Pahor hanno offerto al mondo – sì, al mondo – un esempio alto e luminoso.
Un gesto generatore di speranza e colmo di insegnamenti per le generazioni presenti e future.
Mattarella e Pahor hanno fatto risaltare la perdurante validità dello scopo fondativo dell’Unione Europea: sostituire all’inimicizia e alla guerra tra i popoli, e all’odio interetnico, la concordia, la comprensione reciproca tra le nazioni, la collaborazione e la pacifica convivenza tra identità e culture diverse.
Hanno fatto capire che questi valori, che rappresentano una conquista da difendere permanentemente contro le nuove minacce che si affacciano sulla scena e che sbaglieremmo a sottovalutare, debbono essere affermati con più forza, e con azioni coerenti, dove più laceranti sono state le ferite e le fratture, e più veementi e travolgenti i contrasti e le contrapposizioni.
Se le memorie altrui, e in special modo quelle che sono state definite le “memorie sofferenti”, non possono essere condivise, certamente possono e debbono essere studiate, conosciute e rispettate.
La decisione di restituire il Narodni dom alla comunità slovena è, tra i tanti possibili, un gesto simbolico di grande significato, e va in questa direzione. È il primo e non deve essere l’ultimo.
Ritengo che l’adempimento dei doveri poc’anzi ricordati costituisca, quasi un secolo dopo il loro terribile sacrificio, il modo migliore di omaggiare la memoria dei caduti che nel settembre di ogni anno qui vengono ricordati.
Di questi doveri tutti dobbiamo mostrarci coscienti. Debbono esserne coscienti in primo luogo coloro che ricoprono cariche di responsabilità nelle istituzioni.
Con l’intervento che sto per concludere ho inteso offrire il mio modesto contributo, sicuramente piccolo, ma, posso garantirlo, sentito e generoso, a questa a mio avviso preziosa opera unitiva e di incessante ricucitura.
Un’opera tutt’altro che facile. Ma che, se portata avanti con continuità e con lungimiranza, senz’altro si rivelerà notevolmente feconda.
Spero con tutto il cuore di esserci almeno in parte riuscito.
SEN. Dario PARRINI